A cura di Gianfranco Cefalì
Su e giù, su e giù, sull’altalena. Il tempo di un sorriso all’apice e i due occhi di bambina non ritrovano un padre che fino a qualche attimo prima aveva spinto la gioia sempre più in alto. Smarrita e senza risposte cercherà quella figura per tutta la vita.
Un’assenza può essere una presenza costante nella vita di una persona, un vuoto può riempire un’altra esistenza rendendone la vita una continua ricerca. Possiamo dare un valore, un peso, che riesca a quantificare una mancanza? Siamo capaci di trovare una qualche misura che ci riesca ad aiutare a colmare una distanza? A semplificare un calcolo esageratamente difficile? Possiamo restituire corpo a quest’assenza?
Piero Balzoni in questo bel romanzo ci parla proprio di questo, di una mancanza improvvisa, di un essere umano che scompare nel nulla, in un attimo, che segnerà la vita della protagonista.
Questa mancanza e la costante ricerca segneranno tutta la sua esistenza, dal rapporto con gli altri a quello più intimo con sé stessa.
Ci continueremo a chiedere se qualcosa possa aiutarla nella sua ricerca spasmodica di domande senza un’apparente risposta. Forse con gli oggetti, oppure i luoghi. Forse entrando nel mondo dei ricordi, e forse saranno proprio questi che aiuteranno a riempire quel grande vuoto. Ma saranno veri questi ricordi? O saranno proiezioni di speranze, illusioni? E quanto sarà disposta ad aspettare? Il tempo è una variabile strana, in realtà incalcolabile per chi aspetta, per chi cerca in continuazione qualcuno che con ogni probabilità non tornerà mai.
Come un gioco di riflessi, a cui mancano gli specchi, in cui sentiamo, percepiamo una presenza, ma non riusciamo a coglierla bene, come un’ombra che si allunga ma non vediamo chi la produce, come le orme sulla battigia, sempre erose, cancellate, con la sabbia sempre pronta ad accettare nuove forme che vengono disgregate, mettendoci un tarlo nella testa, una domanda, tante domande. Sono stata qui? Ho percorso già questa strada? Erano mie le orme o di qualcun altro?
L’autore divide il romanzo in tre parti accompagnandoci nelle tre fasi della vita: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità.
Tutto il romanzo è avvolto da un alone di mistero, anche se mistero forse è il termine sbagliato, perché è più inquietudine quella che il lettore proverà leggendo queste pagine. Una sensazione di straniamento che si avverte soprattutto nella prima parte del romanzo quando la giovane età della protagonista porterà a determinate percezioni che metteranno in dubbio certezze e restituiranno una visione a tratti infantile ma sempre piena di un determinato significato. Questa angoscia, questa tensione scemeranno solo in parte con la crescita, inficiandone il percorso vitale che porterà la nostra protagonista a seguire strade piene di dubbi e incertezze.
I personaggi non hanno nome in questo libro. Sì, i personaggi principali sono espressi in modo semplice: madre, padre, figlia. Archetipi. Non per spersonalizzare e generalizzare, non a voler ripercorrere un mito, o la storia. Qui in fondo a questa scelta si cela qualcosa di più profondo, qualcosa che necessita di attenzione e comprensione, come ci fosse sotto qualcosa di ancestrale.
Anfibi: il nome deriva dalla fusione delle due parole greche ἀμφί, con il significato di “doppio”, e βίος, con il significato di “vita”. Questa definizione rispecchia in pieno la vita di tutti i protagonisti. Come anfibi si muoveranno tra due mondi, tra due vite. Quella reale e quella apparente, quella interna e quella esterna, quella sociale e quella privata, quella sulla propria terra ferma e quella nell’acqua. Vivranno sempre una vita dimidiata e allo stesso tempo doppia in una continua opera di ricerca e scavo, di accumulo di segni reali o presunti e in uno stato mentale che ne svilirà sia la lucidità in alcuni casi che i rapporti interpersonali, facendo sì che la protagonista cerchi sempre figure esterne alla sua piccola cerchia familiare per cercare rapporti umani che in qualche modo possano restituire non un padre ma figure similari.
Molta importanza in questo romanzo li hanno i luoghi. Sin dall’inizio siamo stretti in posti che sembrano solo in apparenza pacifici, non perché siano gretti e pericolosi, anzi idilliaci all’apparenza mostrano un lato quasi perturbante che mina le poche certezze della protagonista. Si inizia con l’altalena, primo oggetto che si incontra e primo andare su e giù, quel piccolo sedile che le fa alzare ancora di più gli occhi al cielo sarà un macigno che non riuscirà mai a sollevare. Anche il caseificio dove si trascorrono le estati calde a fare da custodi, fatiscente e accogliente, spoglio e vivo allo stesso tempo sarà una presenza, un corpo non estraneo nella vita di tutta la famiglia. E anche il lago dove tuffarsi trattenendo il respiro per cercare di andare più in fondo possibile per donare qualcosa di lucente a un “Dio” e vedersi respingere in alto verso la superficie ributtando fuori l’aria con forza, anche qui, giù e su, su e giù, in modo perenne potremmo anche dire, come tutta la sua vita. E se questi luoghi segnano l’infanzia, nella adolescenza e maturità altri saranno i luoghi a farsi corpi custodi di memorie e speranza, di visioni e contatti. Una casa spoglia, un ascensore che va su e giù, un ospedale che riempie la maggior parte del tempo. Una cartoleria con teli che nascondono una biblioteca, che rispecchia la costante ricerca dell’ordine, del restauro, della storia, dell’accumulo, del continuo ricercare segni che diano risposte.
Oppure un armadio come ventre per riporre e custodire avvolti nella carta ingiallita ricordi o progetti di ricordi. Fantasmi, spettri che viaggiano nel tempo, che costruiscono ricordi veri o falsi, impressioni e paure, che minano quelle poche certezze e contribuiscono a erigere muri spessi in una socialità falsata e distruggono allo stesso tempo rapporti che dovrebbero basarsi sulla fiducia e che inciampano nei tratti scomposti di un’assenza che espanderà l’incertezza prima, il dubbio dopo e infine lascerà smarrita non solo la protagonista ma anche la madre e le poche persone che gravitano intorno a lei.
È la storia di un’ossessione, di uno stillicidio. Una goccia che scende a volte lenta, inesorabile, a volte cresce veloce fino a diventare flusso inarrestabile che colma. Alle volte sembra mancare davvero poco per far tracimare tutto, alle volte è calmo e piatto come un lago, alle volte esonda come un fiume in piena.
Quale figura di padre uscirà dalla narrazione della figlia è qualcosa che sarà bello per i lettori scoprire a poco a poco nelle pagine e sarà altrettanto interessante seguire il percorso che, se non possiamo completamente definire di consapevolezza, sarà più che altro un tentativo di raggiungere una verità.
La scrittura di Piero Balzoni è molto efficace, riesce a mescolare sapientemente uno stile asciutto con parti molto ispirate, rendendo il racconto fluido e allo stesso tempo pieno. Alcune scelte stilistiche sono molto azzeccate, come l’eliminazione del punto o dei puntini sospensivi al termine di alcuni dialoghi, come se il discorso non necessitasse né di un’interruzione e neanche della sospensione, ma un incastro perfetto che riesce a rendere il dialogo molto più interessante e ritmato. Caratteristiche anche le descrizioni, mai banali riescono sempre a far capire e farci entrare nel concetto che l’autore vuole esprimere, non ricadendo né in immagini stucchevoli e stantie, né in eccessivi virtuosismi che le farebbero sembrare forzate e vuote.
Una storia sulla perdita e sull’attesa, sulla figura paterna e sui rapporti tra genitori e figli, sulle verità e sulle bugie, sull’equilibrio instabile su cui tutti quanto noi costruiamo le nostre vite.