Esce oggi martedì 29 marzo la nuova silloge di Valentina Meloni, "L'evidenza del vuoto", pubbicata per i tipi di ensemble edizioni. In anteprima Alessandro Corso l'ha assaporata, letta e recensita per il blog "Letto, riletto, recensito!"
A cura di Alessandro Corso
Scorgere un autentico romanticismo nella poesia di Valentina Meloni è un fatto oggettivo, versi sonori i suoi, dove le immagini si caricano dei colori della natura, richiamata non come semplice sfondo ma come luogo dell’assenza-presenza dell’altro, il tu, l’interlocutore diretto di queste poesie scritte come lettere d’amore all’amato o al sé interiore. Già nel titolo della silloge “L’evidenza del vuoto” edito dalla casa editrice Ensemble (editore di nota di cui ricordiamo tra le pubblicazioni recenti anche la raccolta poetica “Nella foresta” di Franz Krauspenhaar) sono implicite le tracce di un vissuto tra ombra e luce. In un mondo in cui, oltre la facciata buonista dei cuori e dei like social, suole manifestarsi un vero e proprio covo di vipere, la gentilezza della parola, di chi come Valentina crede nella poesia, non può che essere un farmaco. La poesia-omaggio a Pierluigi Cappello è anch’essa una dichiarazione d’amore a un poeta legato alla natura dei suoi luoghi e alla conservazione della loro identità, a cui Valentina chiede: “Perdi sempre lo sguardo nei boschi? Ti ferisce ancora la cima aguzza che taglia i cieli di neve?”. La grande poesia è in tal senso presente, tanto che se ne sente al contempo la viva mancanza, fatta di carne: “qui i giorni si fanno opachi, nella voce che manca”. Resta, di fatto, che il romanticismo di Valentina è quasi mai banale, semmai si fa iperbolico per nutrire una sottesa disillusione, dove l’io narrante chiama l’amato, alla ricerca di una riconferma, o come in “Rammendo”, di un “gesto di riparazione”, filtrato sul finale attraverso il gioco delle allitterazioni e delle assonanze:
“come uno strumento flesso a un’attesa
sospesa arresa, tremo e mi abbandono
nel bacio che ti dono l’illusione”.
Laddove la voce si fa amara, carica di questa dichiarata illusione, la poesia non accenna mai a perdere il dinamismo delle immagini, segno, per l’appunto, che la lirica sta raccontando molto più di una perdita o di quel momentaneo o completo smarrimento raccontato da una domanda, come in “Senza te, con te” (titolo che ricorda il fil rouge filmico imperniante “La signora della porta accanto” di Francois Truffaut):
“dove siamo stati per tutto il tempo
e come mai è potuto accadere che abbiamo smarrito
la direzione
perso la rotta, spiegata la mappa
fiutando sempre ogni minimo vento
le braccia distese in guisa di ali”.
Vero è che il registro, a tratti semplice, sembra perdere di vista talvolta il mondo delle immagini, come se a Valentina interessi più il presente, inteso come attimo da vivere o smarrire completamente, e dove sembra contare invece il gioco specchiato delle voci, sotto forma di preghiera, come in “Piccole cose”:
“dì il mio nome, sussurralo alla sera
raccogli i silenzi intorno al grumo
quasi fossero supplica o preghiera”.
Il ritmo delle stagioni è presente tra i versi, nel richiamo alla neve, agli alberi, alle foglie, all’erba, alla pioggia (qualcosa di temporaneo, ma che pur viene fissato nel titolo della poesia “A me restava la pioggia”) agli uccelli che passano anche loro, e dove, come in un gioco amaro tra la vita e la morte, capita di cogliere lo scarto dell’improvvisa perdita:
“Qualcosa che nasce e respira
ma se si apre, guarda, è una piuma
un piccolo passero che muore”.
Una poesia, questa di Valentina Meloni, che conferma in questo richiamo alla natura e agli animali, una continuità con la tradizione italiana di poeti come Montale, Saba e Quasimodo, fermo restando che è sempre il vissuto, l’incontro autentico con gli spiriti e le presenze della natura, la volpe o i fiori amati, a offrire un rimando ai giganti della poesia. Tanto che non può che essere forte, qui, la coscienza dell’immensità temporale di questa natura, più forte di tutti i rumori del mondo, quel mondo post-industriale di cui l’autrice fa volentieri a meno come in “La foresta dei violini”:
“ma avrei voluto dirti della neve che cade
sui grandi abeti rossi
là nella Val di Fiemme
dove passeggia ancora
melanconicamente
il fantasma infelice
del vecchio Stradivari,
di quei monti selvaggi
che furono vulcani
chissà in quali ere”.
La composizione dei versi rivela un disegno preciso e meditato, oltre che un sapiente gioco sonoro attraverso l’uso dinamico dell’asindeto e l’alternanza parallela dei verbi come sul finale di “Ci sono giorni pieni di ombre”:
“Tu non ci sarai alle 6.50
di questo giorno qualunque
non ci sarò io a dirmi mare pane.
Se ne andrà, tra le nebbie dell’alba, vagando in esausta esistenza
una bambina rubata alle ore”.
Ecco, l’immagine della bambina, una visione nostalgica che Valentina si cura di rendere presente, reale, senza curarsi di fare autocensura della propria brama d’innocenza. Altra risposta non c’è, se non la disillusione, che talvolta fa capolino davanti alle catastrofi del quotidiano, quelle apparentemente banali di un incontro mancato, o quelle angoscianti di una catastrofe naturale, un terremoto improvviso, o di una perdita affettiva. L’oblio della giovinezza, la paura del distacco, l’evidenza del vuoto intesa come tempo futuro, la caducità dell’essere che non è mai un essere a sé stante ma parte di un tutto, la coscienza di essere persi tra le stelle, come cantava un tempo la voce stupenda della cantante statunitense Sarah Vaughan, attraverso le note di “Lost in the stars” di Kurt Weill, questi sono altri dei temi topici di una poesia che non fa fatica a fare del proprio punto di forza la coscienza della fragilità dell’io narrante e di tutti noi, dove tutto, anche il silenzio ha un peso, un prezzo:
“Ti regalo una perla della mia collana
come sigillo sferico al tuo silenzio
io so quanto è costata all’ostrica
e quanto tempo è trascorso
da quando il granello di dolore
si è insinuato nelle valve…”.
L’autrice sembra essere cosciente che nel suo “racconto” lirico è insito un rischio, quello della ripetizione di alcuni temi e immagini, sorta di germinazione contaminante. Forse, proprio per questa ragione, ci regala sul finale della silloge un poemetto di forte immaginazione, avente titolo “I bambini del mare”, con versi introduttivi dall’Eneide di Virgilio, con un forte richiamo al dramma degli emigranti, gli emarginati e i vinti che fuggono da ogni guerra. L’incipit, oltre a segnalare un’autrice già di casa nel territorio del fantastico e del mondo fiabesco (ha pubblicato le storie fiabesche “Storia di goccia”, “Nanuk e l’albero dei desideri”) testimonia la semplicità e la cura musicale dei versi tipico dello stile di Valentina Meloni:
“Ai bambini spuntarono le squame
come a i pesci del nostro oscuro mare
di bocca in bocca cibandosi di essi
per osmosi tragica innaturale”.
Come anche messo in luce nella postfazione alla silloge, a cura di Iuri Lombardi, è tipico di Valentina Meloni “il colloquiare con colleghi, nomi, personaggi, a cui dà del tu montaliano, come se si trattasse di un dialogo diretto”. Di fatto è questo il dialogo diretto che l’autrice costruisce in modo binario con il suo lettore, trasferendogli quel “testamento di vita” che una volta scritto, e interiorizzato nel proprio sé, gli appartiene, colloquiando musicalmente col suo immaginario.