A cura di Letizia Cuzzola
Lascia che il mare tutto consumi di Luciano Tribisonda (Il mio libro, 2021, pp. 110, € 13,00) non è una semplice raccolta di poesie ma un viaggio fra le onde, fra folate di vento. Ed è proprio il vento a prenderci per mano e farci scivolare fra i versi, a lasciarci trascinare dalla Bonaccia, dal vento della partenza, de «La Primavera arriverà/ abbracciandoci con le sue dita di seta/ regalerà ai nostri occhi i suoi germogli/ e ci farà dimenticare tutto il male». Il male che mai compare fra i versi, anzi… l’Ostro ci trasporta nell’infanzia del poeta, sulle coste di Leucopetra dove la felicità semplice dell’estate diventa motivo di un ricordo con lo sguardo rivolto ai pescatori.
La Tramontana è la nostalgia dei luoghi, dell’Atlantico, dei viaggi mai finiti ma continui alla ricerca di sé e di quell’amore dalle mille forme e dai mille volti. È la ricerca del Padre, terreno e di solo Spirito che scava solchi nell’affanno. Non a caso, il nostro continua il suo percorso cullato dal Grecale, dal grido di dolore: «Si alza nel silenzio il sipario delle stelle/ e sento preghiere antiche cantate a squarciagola/ dammi una sola carezza adesso che sono vivo/ ed abbi pietà di me mentre ti abbraccio e dormo». No, non c’è riposo, c’è la preghiera di una tregua mentre i versi richiamano alla memoria il dolore di madri orfane con la delicatezza della penna che è propria di Tribisonda. Sono tratti leggeri seppur intrisi di disperazione, una disperazione mai urlata ma di controcanto alla barbarie dell’umanità.
Lo Scirocco è la passione vuota del “bravo peccatore”: «Io non sono figlio del peccato/ io sono figlio dell’amore/ ed ho la voglia di esser santo/ ma son peccatore di professione». Ma i peccati d’amore non sono quasi mai peccati. Non esistono passioni vuote se il cuore le ricolma di attimi. Il Ponente è la casa, la casa che si fonda sui resti dell’antica madre Grecia, che attende Ulisse col rancore di Penelope e lo sguardo dell’Etna. È la Calabria che allontana e chiama.
Il Libeccio è la malinconia di ciò che poteva essere ma non è stato, è il travaglio interiore in una solitudine che è soltanto dei poeti: «Il poeta è come l’acrobata, bambina mia/ egli salta leggero e vivo tra le fiamme/ alla ricerca di qualche anima/ che gli faccia compagnia». Il Levante è la gioia sottile, è quel viaggio iniziato pagine prima che si ricompone epurato delle sensazioni negative, rinvigorita da una voglia costante di rinascita e he ci conduce al Maestrale, al futuro, alla “bellezza del domani” con la coscienza che le certezza si costruiscono oggi. E Tribisonda ne è certo: «Anche se avessi usato la mano destra/ avrei detto le stesse cose/ lo stesso avrei cantato l’amore/ lo stesso avrei danzato con la notte».