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Dolore e speranza nelle lacrime e nel sangue di Giorgia Borsellino

24/02/2022 23:01

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Dolore e speranza nelle lacrime e nel sangue di Giorgia Borsellino

A cura di Francesco Bennardo

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Giorgia Borsellino

 

 

Lacrime e sangue

 

 

Libridine

 

 

L'angolo della poesia


A cura di Francesco Bennardo

 

Porto Empedocle è una città nota a livello letterario per aver dato i natali allo scrittore Andrea Camilleri, “padre” del commissario Montalbano. Ma i delitti risolti dal celebre “sbirro” siciliano non sono le uniche tragedie che si insinuano nella nostra bella Vigata: troppo spesso ci dimentichiamo che i drammi e le disavventure sono – per parafrasare una battuta di Asia Argento nel film Perdiamoci di vista – «la cosa più democratica del mondo» perché possono capitare dappertutto. Anche a chi ci sta vicino. Anche a noi stessi.

 

È questo il caso di Giorgia Borsellino (Agrigento, 11 febbraio 1995). La giovane poetessa empedoclina è una di quelle ragazze costrette a crescere in fretta, a diventare mature prima del tempo: una serie di disgrazie personali l’hanno portata a perdere prematuramente entrambi i genitori. Come se ciò non bastasse, un disturbo borderline della personalità ha accidentato la sua naturale evoluzione da ragazza a donna.

 

Appare quindi assolutamente coerente con questo percorso che la silloge d’esordio della Borsellino si intitoli Lacrime e sangue (Libridine, 2020). Ma queste immagini, si badi bene, non hanno nulla a che vedere con quelle apparentemente analoghe evocate da Winston Churchill nel suo discorso antinazista del 1940 (e non sarà la prima volta che un rimando ad altri autori si rivelerà mera suggestione): quelle simboleggiavano il riscatto, la lotta, la voglia di resistere e la vita; queste, al contrario, suggellano l’incontro con la sofferenza, il male di vivere, l’abbandono e la morte.

 

Parlare d’una raccolta così introspettiva e assoluta è quasi impossibile, per almeno due motivi: come ha scritto – senza retorica alcuna – la prefatrice Annalia Todaro, Giorgia a soli 16 anni aveva provato il dolore che solitamente si prova in una vita intera, un dolore personalissimo ed immenso che raramente si può comprendere se non lo si prova; la giovane autrice, inoltre, non ha poeti o correnti letterarie di riferimento (sebbene non mancano, come accennato pocanzi, le involontarie suggestioni richiamate dai suoi versi, Catullo e Schopenhauer soprattutto) e pertanto il suo stile non è ascrivibile a niente di già edito. Mi limiterò allora, per manifesta incapacità, a circumnavigare il libro di questa artista in erba.

 

Le liriche contenute nella raccolta sono state scritte durante un ricovero ospedaliero dell’autrice (il pensiero va subito alla “poesia del dolore” di Alda Merini) e comprendono un arco temporale abbastanza breve, che va dal 5 aprile all’11 novembre 2019. Il volano che spinge Borsellino a scrivere le poesie non è letterario, ma terapeutico: i versi scritti sono un modo per palesare e ratificare i passi compiuti in questa sorta di convalescenza dell’anima; difatti, le poesie non hanno un vero e proprio titolo e si separano le une dalle altre in base alla data.

L’alienazione e la dissociazione mentale in cui la poetessa si trovava in quei frangenti le consentono di realizzare un connubio sublime tra razionalità e irrazionalità: come ogni poetica che si rispetti, anche quella borselliniana è legata a triplo filo sia al mondo delle coscienze (autocoscienza, introspezione, intenzionalità) sia a quello delle parole (parola scritta, parola orale, parola grafica). 

 

Le protagoniste dell’opera prima di Borsellino sono tre: la morte, la vita e l’anima. Ognuna si manifesta con uno strumento peculiare: rispettivamente il sangue (Voglio vederti sanguinare. / Lascia sgorgare i fiumi che hai dentro, / rosso che scorre dalle braccia, / rosso che impazza dalla gola), l’amore (Io ti aspetterò / credo nel nostro amore; / credi insieme a me) e le lacrime (Lacrime bloccate / gli occhi aspettano impazienti / quel bagno spesso negato). Questi elementi si uniscono, si contaminano e si scontrano nella poetica dell’autrice generando una commovente semplicità, una cruda immediatezza di parole e di immagini che è un pugno sullo stomaco del lettore attento. I toni, delicati ed eterei, contribuiscono a far appassionare alla vicenda narrata; le poesie – come già menzionato – non hanno titoli ma sono distinte soltanto dalla data di composizione: tutto ciò appassiona, coinvolge e porta chi legge a interessarsi alla vicenda, a “fare il tifo” per l’autrice, nella speranza che scorrendo le liriche – e quindi i giorni – il sapore amaro e melanconico dei versi venga spazzato via.

 

Questo, però, non succederà mai del tutto. Se non sono espressione di “pessimismo cosmico”, le poesie mantengono comunque una vena agrodolce, come se il male non fosse mai del tutto cancellato. Emblematico è, a mio giudizio, il componimento del 24 aprile, vero e proprio manifesto della poetica borselliniana, che riporto per intero:

Fluttuo,

in un cielo di disperazione dove le nuvole sono sangue.

 

Aspetto che piova,

coprirmi di rosso,

godere questa mia amata follia.

 

Non sento niente,

forse sto dormendo,

e al solito, si tratta di un incubo.

 

Questo mio cielo, non lo trovo.

Eppure gli appartengo;

dove va, senza di me?

Lo cerco dentro, lo cerco fuori,

non trovo altro che cieli azzurri e sereni,

ogni tanto nuvolosi,

fatti d’aria difficile per i polmoni.

 

Le piogge non colorano di rosso,

sono tristi macchie che ti riempiono, ma mai abbastanza.

 

Non è il mio cielo.

 

Non è, come si vede, una poesia classica, dalla metrica rigorosa e ritmata: in questa silloge non troverete orpelli o arzigogoli retorici, ma vita vera, vita vissuta, vita amara (sta alla sensibilità dei lettori stabilire se l’ultimo verso si riferisca ai cieli “azzurri e sereni” – desiderio di riscatto, di “normalità”, di felicità – o all’”amata follia”, quasi come se ci fosse una masochistica voglia di dolore, sensazione desiderata perché, in fondo, è l’unica che si conosce realmente).

 

L’ultima poesia, datata 11 novembre, è forse la più speranzosa, quella che più ci lascia presagire una completa guarigione fisica e morale. Ormai “libera dalle catene della morte”, Giorgia si rende conto che “l’abbraccio della vita forse ora è possibile” e notando di avere finalmente, dopo la lunga convalescenza, degli istanti di lucidità (si legga ottimismo), conclude augurandosi che essi diventino “normalità” e “vita”. Impossibile non associarsi a tal speme. 

Secondo George Orwell, non esistono uomini o argomentazioni che possano difendere una poesia giacché essa è o autodifendibile (e in tal caso si protegge da sola e quindi sopravvive) o indifendibile, e allora scompare. La sua sopravvivenza deriva quindi dalla cristallizzazione del proprio consenso nella tradizione civile e dalla risposta autentica al quesito sulla qualità; ma si tratta di un consenso e di una risposta che emergono sulla lunga durata, si formano dal pensiero storico delle generazioni e si confermano nell’esperienza esistenziale, come giustamente osserva John Lukacs. Giorgia Borsellino, da buona poetessa contemporanea, è un’“artista” e non una “donna di spettacolo”, perché con la sua opera supera e distrugge la logica della parola prêt-à-porter buona solo per l’immediato e mira a cristallizzare la – propria – verità esperienziale nel corso del tempo. Ansiosi di leggere le sue prossime raccolte, io le auguro di proseguire su questa strada e di sconfiggere tutti i mali che si annidano nel suo animo.


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L'autrice 
Giorgia Borsellino è nata ad Agrigento l’11 febbraio 1995 e vive a Porto Empedocle. Ex impiegata, è traduttrice freelance dall’inglese all’italiano. Appassionata di videogiochi, profonda conoscitrice di canzoni, pellicole e serie tv angloamericane, ha vissuto a lungo a Bologna, città che adora.

 

ll libro

Titolo: Lacrime e sangue

Editore: Libridine
Pagine: 120

Prezzo: € 10,00