A cura di Gianfranco Cefalì
Uno schiaffo in faccia. Veloce. No. Un pugno in pieno viso. Forte, fortissimo. Quando ho finito la lettura avrei giurato di sentire il sapore del sangue nella bocca, il gusto acre delle lacrime. Uno strano malessere mi ha avvolto dall’inizio di questa lettura. Lettura che ho voluto fare senza addentrarmi troppo nel conoscere né l’argomento del libro, né lo stile o la storia dello scrittore. Mi è bastata la quarta di copertina, poi non ho voluto sapere altro. Sì perché, con alcune storie, il piacere della scoperta, porta in dote una vastità di sensazioni ed emozioni che altrimenti sarebbero state filtrate dalla parziale conoscenza, e di conseguenza da un pregiudizio. E questa è un’opera che non ha assolutamente bisogno di pregiudizi.
È dentro un abisso che mi sono trovato, in uno spazio angusto le cui pareti si facevano sempre più strette fino a farmi rimanere senza fiato. La storia che mi sono trovato davanti è una di quelle che vanno raccontate, che vanno scritte, che forse andrebbero urlate, perché di sussurri è pieno il mondo e, per quanto possano sembrare suadenti e piacevolmente poetici, ogni tanto bisogna trovare il coraggio di svuotare i polmoni e farsi carico di storie che difficilmente si farebbero raccontare o si vorrebbero raccontare.
Davide, Osvaldo, Mauro, Rachele, Giuseppina, Aurora. Ecco sei iceberg, neri, nerissimi, di cui noi all’inizio intravediamo solo la parte emersa e che l’autore ci racconta attraverso il tempo e lo spazio, non ricorrendo a nessun filtro per edulcorare una, due, tre, sei vite, attraverso gli occhi del vero protagonista che è Davide. Solo così, arrivando alla fine riusciremo a vedere anche quello che si trova sotto il livello del mare, e sarà un ammasso informe di proporzioni inaudite che nella maggior parte dei casi non vedrà mai la luce del sole.
Potrei definirla una storia horror, una storia di formazione orrorifica, ma sarebbe fuorviante, non perché il libro non presenti connotati che si avvicinino e che ci avvicinino alla paura, ma perché sarebbe riduttivo e lo farebbe rientrare in una categoria che presenta stilemi particolari; qui ci troviamo dinanzi alla vita, quella vera, quella vissuta, quella subita, accettata, rifiutata, scomposta, demolita e poi solo successivamente nell’età adulta ricostruita, creata ex novo, quella vita che all’inizio si fa fatica a capire, che nell’infanzia sciagurata lascia per strada scorie e turbamenti difficili da digerire. Cicatrici indelebili. Il tutto narrato attraverso le tappe più importanti del protagonista. Potrei anche dirvi che è una storia di scoperta, di sé stessi e della propria identità, ma anche qui sarebbe troppo riduttivo mettere questo elemento come centrale nella narrazione.
Questo è un romanzo forte, fortissimo. Qualcuno potrebbe, come si suol dire, storcere il naso davanti a uno schermo privo di protezione per il lettore. Bene, qualcuno potrebbe trovare offensivo il contenuto, male, perché la scelta artistica quando fatta in modo corretto e senza fini sensazionalistici è sempre da considerarsi arte. Ricordo a tutti che ci sono vari modi di rappresentare, scrivere, immaginare, visualizzare il “sangue” e questi vari modi nel corso del tempo sono stati già tutti dissezionati e spiegati, un po’ come trovarsi davanti una sparatoria di un film pulp oppure un “poetico” conflitto a fuoco in un film di Kitano.
E sempre a proposito di film mi è subito venuto in mente “Miss Violence” di Alexandros Avranas e consiglio a chi ancora non l’avesse visto di farlo. Oppure i grandi mangaka giapponesi, Junji Itō, Suehiro Maruo o lo spagnolo Miguel Ángel Martín, e ne potrei citare tanti altri che hanno fatto della loro arte una cifra stilistica riconosciuta, apprezzata e premiata in tutto il mondo, a prescindere da come si sia voluto scegliere e rappresentare un determinato argomento. Lo so, questi paragoni potrebbero spaventare, ma mi sono serviti solamente per farvi capire la bellezza di quest’opera, romanzo che nei ringraziamenti finali porta l’autore a scrivere: “Mi spiace per la vostra sensibilità ferita, ma non conosco altro modo per raccontare l’orrore se non attraverso la crudele semantica della verità. A ogni modo: c’è più purezza nel mio abisso che nei falsi sorrisi di cui si nutre la vostra ipocrisia.” Ora avete capito bene le parole da me scritte e cosa volessi dire.
La scrittura di Ariase Barretta è asciutta, senza fronzoli, veloce e spietata, strettamente funzionale alla storia, non si perde in metafore ardite e non fa nulla per compiacere il lettore, riesce a tenere l’attenzione sempre desta e ha il grande merito di farci male, molto male, lo fa a fin di bene e si capisce dall’estrema intelligenza con cui cura i suoi personaggi e la loro storia. Un’opera coraggiosa che in poco meno di cento pagine riesce a condensare il dolore e a mostrarcelo in varie sfumature, rendendo questo romanzo amaro, angoscioso, disperato ma estremamente necessario.
L'autore
È nato a Napoli e vive a Madrid. Si è laureato all’Istituto Orientale per poi proseguire gli studi presso le Università di Modena, Barcellona e Madrid, dove ha conseguito un Dottorato in Letteratura ispano-americana. Nel 2009 ha vinto il Premio Letterario “La voce dei sogni” a cui ha fatto seguito la pubblicazione di Litany. Successivamente ha pubblicato i romanzi Darkene (2012), Psicosintesi della forma insetto (2014), H dalle sette piaghe (2015), premiato come miglior noir al Festival “Giallo al centro” di Rieti, e Living Fleshlight (2018), tutti editi da Meridiano Zero. Nel 2018 ha fondato, insieme alla performer Manuela Maroli, il duo di Letteratura performativa Sacrificium Viduae, con cui ha realizzato le opere Luce di carne viva e Le lacrime di Venere. Attualmente si occupa di Queer Art e Transmodernismo, con particolare riferimento all’opera dell’artista e scrittore cileno Pedro Lemebel.
Il libro
Titolo: Cantico dell'abisso
Editore: Arkadia
Pagg.: 106
Prezzo: € 13,00