Alessandra Corbetta
Corpo della gioventù
Puntoacapo
L'angolo della poesia
A cura di Paolo Pera
Il Corpo della gioventù (puntoacapo Editrice, 2019) di Alessandra Corbetta (in foto) è un perfetto spiraglio nel pensiero femminile, eppure il crucio di fondo della poetessa è parecchio metafisico (quasi cartesiano): come posso io abitare un corpo? O meglio, come può l’io abitare un corpo? Ad aprire a questi dubbi, a questi enigmi assai velati nell’opera della Corbetta, è il postfatore – prezioso e vigile critico – Ivan Fedeli, ma pure i numi posti in apertura (Kemeny e Garzia). Il domandamento di Corbetta, infine, si rivela un tormento assai postmoderno: quello di un’identità mai del tutto rivelata (o per lo meno cangiante, diveniente) – un’identità affidata dunque all’esteriorità, mutevole anch’essa –, e non per forza un io frammentato che vuole ricomporsi, quasi in un desiderio d’interezza. Il corpo, insomma, sarebbe la casa della mutazione (la casa dell’essere, inteso quale temporalità) da cui prenderà a mutare anche l’io, che – apparendo stabile – riempie la vuotezza del corpo rimanendone vittima prediletta. Questa apparirebbe quasi una trasfigurazione ardita della poetessa: non l’io (postmodernamente) muta e si disconosce in noi ma il corpo cambia e diventa il motivo della nostra insicurezza. Tale fragilità ci dà la cifra del femminile propria di questi versi, aprendoci non solo all’intima comprensione che la donna ha di sé ma pure a quella docile malinconia che la poetessa – almeno nei suoi vent’anni – confessava: «Dicono che la nostalgia m’appartenga», ma pure «È ovvia la mancanza»; né la convince di sé alcuno sguardo esterno («La vita è una faccenda personale, / i vostri credo piante d’ornamento»).
Questo volumetto, impreziosito da un linguaggio levigato, altro non è poi che un meta-diario dei vari stati di maturazione della Nostra: dalla prima età adulta «bisognosa di storie» ai conti con l’invecchiamento («Un tuffo in piscina e dicevi / quanto ero vecchia / a non voler crescere, / a voler restare bambina», questi versi sono quasi la risposta corbettiana alla poesia Falsetto di Montale) e con la morte («I piedi della sedia ho lasciato andare, / dondolo leggera: la preda / è l’ombra che rimane», oppure «lì, neanche la Zeta ti faceva paura»). Ma ogni fase della maturazione della Nostra è infine una nuova gioventù di cui lei sola è testimone vera: «mentre mi guardi / e canti e dormi e non avverti / il dolore atroce del mio passaggio / obbligato di gioventù». Essa pur patendo la sferza dell’illusione circostante, propria della metropoli, non può farne a meno: «Nessuna colpa, se alle fessure degli archi / preferì la luce delle vetrine», in fondo chi è smarrito nel proprio corpo lo sarebbe anche da eremita in mezzo al verde.