A cura di Paolo Pera
Leggendo l’ultima opera di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021), ho avuto sentimenti assai contrastanti: è indubbio che in mezzo all’importante domandamento sull’atto di morire (e su ciò che si prova) stanno pure testi parecchio deboli e ben poco fascinosi, salvati per lo più dalla ricerca di fondo dell’autore, e da quella che parrebbe essere – almeno in due sezioni del libro – la commemorazione di alcune conoscenze del Nostro che hanno scelto di spezzare la propria “linea” col suicidio:
di queste povere anime l’autore descrive con molto rispetto e inquietudine l’azione atta ad arrecare la morte, ma anche ciò che li ha portati ad adempiere alla «decisione di non respirare», affondando così «nella lingua morta» per poter terminare quei «battiti della mente» che tanto affaticano il perdimento terrestre.
Nella sezione terminale (Aurora con rasoio) abbiamo difatti un vasto assortimento di dolore: chi si è impiccato; chi si sparò in testa; chi si è tagliato le vene nella vasca; chi si è dàto fuoco con la benzina… Ognuno di loro, ci chiarisce De Angelis, si è consegnato al nulla per vergogna e stanchezza di sé. Sprofondati nel proprio mistero – quale mistero più tremendo del morire? – hanno potuto vedere il volto lunare della «dura madre» trovando finalmente serenità. Ma De Angelis pure sembra uno di questi, rimasto però incredibilmente vivo – quasi miracolato dalla resilienza, la forza che porta a resistere all’orrida vita; è forse quella del poeta la “linea” rimasta intera? – in particolare, nella penultima sezione (Dialoghi con le ore contate), egli immortala il suo nichilismo insieme a una sorta di afasica debolezza: il senso di niente tarla la sua esistenza, rendendo tutto caduco e insensatissimo. Un libro di tale portata (doloroso e tragico come i migliori personaggi di Dostoevskij) non sarà certo per tutti: gli animi guidati dalla Luce trascendente ne abortirebbero presto la lettura, altresì chi sapesse – pur con spirito più lieve… – affrontare la nullezza e la “vanità del tutto” ne trarrebbe almeno le piacevoli sfumature (e invenzioni) linguistiche, oltreché il cantilenante lamento d’essere vivi.