Loris Maria Marchetti
Suite delle tenebre e del mare
Puntoacapo editrice
Lo speciale
L'angolo della poesia
A cura di Paolo Pera
L’opera di Loris Maria Marchetti, Suite delle tenebre e del mare (puntoacapo Editrice, 2016), è indubbiamente un’eccellenza della poesia contemporanea. Il poeta sfodera qui la sua intera cultura musicale forgiando un’opera-concerto che egli stesso dirige, una successione (appunto!) di “stanze del pensiero” nelle quali cambia di volta in volta il moto ma mai il tono. Tono oramai completamente consolidato nella poetria di Marchetti, divisibile – a parere dello scrivente – in tre meta-categorie che si compenetrano tra loro: l’autobiografismo rammemorante, il riflessivo-dichiarativo, e quel patetico mai del tutto languido ma sempre colmo d’una stoica ironia (come sostiene degnamente il critico Mauro Ferrari nella sua postfazione).
Che questa sia l’opera della senilità del poeta lo si evince sin dalla prima “suite”, oltreché dalle sue stesse ammissioni – seppur quasi sempre indirette o in terza persona – («un peccato per chi fosse / in seria lite con la prostata», «la musica / si sveglierà e il leone […] / perpetuerà il suo sonno di pace», ecc.), questo concerto difatti parte tra le tenebre d’un confronto con l’idea di Dio: «In fondo di Dio / i preti ne sanno all’incirca / quanto ne so io». È interessante considerare, in chiunque invero, la soggettiva assegnazione di colori agli stati d’animo: evidentemente Marchetti dal suo domandamento sul trascendente non ricava la luce, ma un fumo che conduce nelle tenebre e alla paura d’essere ormai davvero «diversamente giovane», come si può osservare in una coppia di poesie (specchio l’una dell’altra): la prima sostiene che
«L’impressione / è di un vivere postumo / in un orrido sogno […] / con la coscienza verminosa […] / che la realtà / della resurrezione / si rivelerà / più spaventosa / ancora», in questa v’è la consapevolezza della fine; l’altra altresì sostiene che l’esistenza sia il luogo «Dove annaspiamo / in una vita stregata / in un atroce incantamento», e che «dissolto il sortilegio demoniaco / i giorni liberati e sciolti / non potranno che accrescere l’orrore»: in questa il poeta riconosce di star negando da sé quanto prima, seppure inevitabile, preparandosi quasi alle conseguenze…
Ma se «È minimo, davvero minimo / irrisorio il tratto per arrivare / all’altra sponda, un traghetto / da nulla, un ponticello / che più corto non si trova», che tra l’altro «è [pure] inchiodato dentro al nostro cervello», a che servirà mai accelerare i tempi col pensiero? Vengano d’improvviso, di già che il poeta – talvolta pure epicureo – sa che la morte non è per chi vive, e che il passaggio dello Stige non dovrebbe comportare tassazioni!
Rispetto a quest’ultima mia esternazione, porterei all’attenzione dei più la preziosa Odicina dubbiosa a Gianbattista Vico, la quale insinua molto tra le righe che l’Apocalisse – se deve esserci… – probabilmente c’è già stata e che nessuno se n’è accorto per troppa beatitudine tardo capitalista, così – in questo nostro odierno Basso Impero – «se alla fin fine / davvero ci toccasse di esplodere / meglio che accada con il ventre sazio», magari d’hamburger… In sostanza, come dice sempre Ferrari, Marchetti qui è un «uomo del proprio tempo, alle prese con la volgarizzazione e banalizzazione del mondo», e che sente dunque la spinta – quale agente storico, come ognuno di noi – a denunciarne la degenerazione imposta da quei patroni del reale che alcuni s’ostinano a negare. Ma perché poi quest’odicina è indirizzata a Vico? Forse per chiedergli di suggerire alla Provvidenza d’imporre sul Creato un ricorso storico che abbatta gli edifici di Mammona e che tutto riprogrammi?
Sortiamo piano piano dalle tenebre andando più o meno allegramente nei ricordi della maturità – essenziali per strappare da sé i più pesti presagi –, scopriamo qui evocazioni che divertono assai nella loro esposizione falsamente solenne, e che sono talmente sottili da non sembrare immediatamente ironiche: «dopo un saluto / doveroso al monumento della regina Guglielmina / niente di meglio che quattro passi al fresco»; «per me / d’altro canto mi sono “riservato” / il monopolio del bagno perché / la fase di preparazione alle mie / analisi specifiche richiede / ritiri assai frequenti in quel locale»; poi la meravigliosa Due poeti, dove il Nostro alleva per circa un mese un paio di pesciolini rossi (Orazio e Ovidio) trovandoseli infine morti una mattina: «Spero che il Dio di tutti li abbia accolti / nel paradiso dei pesci / perché non fecero male ad alcuno»; ma anche (in ambito amoroso o, per meglio dire, “fu amoroso”; e sempre trattando di paradisi): «“Cara amica, ti devo confessare / che l’unica ragione per cui vivi / nel mio ricordo sono le tue cosce […] / Mi rendo conto che è proprio troppo / poco per collocarti degnamente / nel paradiso degli amori. Ma è così. / Scarsa cavalleria, forse, la mia. / Perdono!”»; l’ironia di Marchetti, così sfumata all’interno del colloquio, se colta provoca ampi “squarciamenti da risata”!
In questo spingerci sempre più nel leggero – fuggendo le tenebre, beninteso – il poeta si permette di mostrarsi il più umano possibile: «Lo sai / che non so fare a meno / della tua lingua / dei tuoi capezzoli / del tuo ombelico / delle tue anche / delle tue natiche / della tua passera / delle tue cosce / dei tuoi polpacci […] / e del tuo cuore».
Infine torna il divino, stavolta nella forma immanente del mare: se l’idea del trascendente rodeva il poeta spingendolo a pensarsi corrotto rispetto alla virtù vera che Dio da noi vorrebbe – virtù da scegliere volontariamente, data l’altissima concessione del libero arbitrio – quello legato al mare parrebbe semmai il desiderio (e la volontà) di tornare all’infinito utero del cosmo, di nuotare nel salmastro liquido amniotico che di pace delizia. Se riferendosi al proprio maestro ideale, Montale, Marchetti s’interroga: «“…noi, della razza / di chi rimane a terra”. / Ma l’autore sublime / di Ossi di seppia / non sapeva nuotare?» a sé stesso confessa: «il tuo mare / che con musica d’onde e di correnti / sciaborda ai tuoi piedi / ti culla nel sonno / ti desta più lieve al mattino… / ti seduce a pensarlo divino». Così tutto si cheta – ottima conclusione del concerto! –, lasciandoci però intravedere una morte, un ritorno (o un rimescolamento…) con il tutto che la Natura è, col principio primo (l’acqua, per Talete)!, dopo tanto perdimento materialista e qualche bega col Dio personale: solo nel mare, solo alla fine d’ogni cosa – sembra dirsi il poeta – «comincerai a vivere».