Alfredo Rienzi
Prefazione di Dario Cappello
Postfazione di Ivan Fedeli
Puntoacapo
L'angolo della poesia
Le recensioni in LIBRIrtà
A cura di Paolo Pera
ASPETTANDO DI MORIRE
La silloge rienziana «Partenze e promesse. Presagi (puntoacapo Editrice, 2019)» avrebbe, a mio modesto avviso, da chiamarsi esclusivamente «Presagi», digià che leggerla significa aspettare – con l’autore – l’avvicinarsi della «data della sua morte». Di che presagio parliamo, insomma? L’unico ipotizzabile: tale data è sorta da un gioco, è stata accettata (e, si sa, solo quant’è assentito esiste nella coscienza); ma sarà davvero lei, considerando che – non essendo noi il Padreterno – non ci è dato di sapere nulla fuori dall’esperienza? Ebbene il dubbio è il presagio, quanto ci incolla all’aspettativa, e pure al desiderio che la morte non preceda la data. In più v’è da dire che di questa data non si conosce l’ora: immaginiamoci un uomo, Rienzi per esempio, che si sveglia in tale data conscio di dover rendere l’anima a chissà chi; esso si potrà domandare ripetutamente: «Quando succederà, perché non l’ho chiesto? Avrò tempo di fare due commissioni? E se capitasse proprio mentre sono a spasso? Preferirei dopo pranzo, mentre riposo. Se possibile che sia indolore…», ora tendo certamente ad alleggerire la portata di questo presagio, seppur conscio del dolore lancinante dell’attesa – che blocca, o che forse spinge intensamente all’esistenza!
Di Rienzi leggiamo: ho stimato, nel poco tempo che ci concedono le grandi scelte / che avrei riacceso l’amore per la vita / (per quel che resta della vita); m’immagino il poeta intento in una qualche seduta cabalistica o una lettura di tarocchi, pronto ad accettare una qualunque data pur d’uscire dal torpore d’una vita stanca d’essere vita – di fatto, divenendo morte (in quanto aspettativa della morte) prende una fortezza ancora più desiderante, ancora più decisa a darsi finché il tempo lo permette; darsi a chiunque, infatti l’ipotetico epitaffio reciterebbe: cercò di voler bene a tutti / anche a chi ne esigeva in esclusiva / e promulgava veti ed anatemi. Aspettando di scoprire se il poeta avrà ragione, possiamo tenere presenti le poche profezie postume che ci lascia, ovviamente da appurare dopo di lui (poesie introdotte da versetti biblici; qui ne segnalerò pochissime): un’immagine apocalittica che vede i sacerdoti inermi mentre il tempio brucia col Dio dentro (poiché interessati solo a salvarsi, e a non affumicarsi, la tonaca); le nazioni si addolorano di non essere state capaci d’alfabetizzare i propri cittadini (che sia forse un falso sentimento?); l’Europa è finalmente in pace con sé stessa (forse dopo la cattività europeista? Chissà). Ebbene, Rienzi dopo questa – potremmo dire – fortunata scoperta (la data della sua morte) è pari a Lazzaro: può finalmente dirci che cos’è l’Aldilà, e chi l’abita! Risponde così: «Là sentiremo la voce di chi desideriamo». Come suggerisce pure il poeta Ivan Fedeli – nella postfazione – il ruolo che Rienzi reclama non è solo quello di Lazzaro, ma pure quello di Cristo che – oltre a dover dire di sé a ogni scimmia, noi… – prega nell’orto degli ulivi aspettando d’essere arrestato dopo aver acconsentito al tradimento di Giuda; inginocchiato, per prepararsi al supplizio, toccheremo lievemente la spalla del poeta rincuorandolo così: «Sul letto di morte ogni uomo è in croce», e lui – più conscio di noi sulla questione – ci dirà: «Per voi il tempo non è prossimo. Fiorite […] senza il dubbio / tra la resa e la vita».